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Silvia Mira

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Le differenze tra l’abbigliamento della donna sposata, della ‘fanciulla’, della signora nubile erano comunque ‘segni’ visibili della condizione personale e sociale e il non rispettare le regole dell’apparire a seconda dell’età e del censo significava mettere in atto un lento ma inesorabile processo di esclusione. Gli abiti in mostra diventano dei ‘ciceroni’ muti in grado di farci fare un viaggio indietro nel tempo, dal 1895 al 1925, fornendoci l’occasione non solo per ammirare la bellezza e l’evoluzione delle linee ma anche di scoprire che l’abito e il contesto erano legati da regole precise delle quali i galatei dell’epoca, ovvero i manuali di buone maniere, ci danno una fondamentale chiave di interpretazione.

L’eleganza del guardaroba di una signora era definita non tanto dalla quantità degli elementi che lo componevano quanto dalla possibilità di declinare sapientemente le scelte rispetto alle ore del giorno e alle diverse circostanze mondane. L’arte di comporre il proprio guardaroba non era senza dubbio una questione così scontata, poiché le riviste di moda ritornavano regolarmente sulla problematica.

Vero è però che tali riviste si rivolgevano alle lettrici della classe media e provinciale e non tanto a quelle dell’élite internazionale. La fonte indiretta di questa codificazione era naturalmente l’aristocrazia che, per nascita, da sempre era la depositaria delle norme non scritte del savoire-vivre. Le regole venivano per lo più da Parigi che restò, almeno fino agli anni cinquanta, la capitale incontrastata della moda e soprattutto del saper vivere alla moda

La nota rivista francese “La Mode illustrée”, diffusa anche in Italia, sottolineava nel 1893 che il corredo di una signora di media estrazione doveva prevedere alcuni capi base ossia una robe de chambre da indossare nell’ambito privato della propria camera, una robe d’intérieur ovvero di un abito completato spesso da un tablier grazioso da portarsi all’interno delle mura domestiche per svolgere i propri compiti quotidiani, dalla corrispondenza all’organizzazione dei domestici, un abito per uscire nel corso della mattinata e di una robe de visites cioè di una veste adatta a recarsi e a ricevere visite nel corso del pomeriggio.

Le differenze tra l’abbigliamento della donna sposata, della ‘fanciulla’, della signora nubile erano comunque ‘segni’ visibili della condizione personale e sociale e il non rispettare le regole dell’apparire a seconda dell’età e del censo significava mettere in atto un lento ma inesorabile processo di esclusione. Gli abiti in mostra diventano dei ‘ciceroni’ muti in grado di farci fare un viaggio indietro nel tempo, dal 1895 al 1925, fornendoci l’occasione non solo per ammirare la bellezza e l’evoluzione delle linee ma anche di scoprire che l’abito e il contesto erano legati da regole precise delle quali i galatei dell’epoca, ovvero i manuali di buone maniere, ci danno una fondamentale chiave di interpretazione.

L’eleganza del guardaroba di una signora era definita non tanto dalla quantità degli elementi che lo componevano quanto dalla possibilità di declinare sapientemente le scelte rispetto alle ore del giorno e alle diverse circostanze mondane. L’arte di comporre il proprio guardaroba non era senza dubbio una questione così scontata, poiché le riviste di moda ritornavano regolarmente sulla problematica.

Vero è però che tali riviste si rivolgevano alle lettrici della classe media e provinciale e non tanto a quelle dell’élite internazionale. La fonte indiretta di questa codificazione era naturalmente l’aristocrazia che, per nascita, da sempre era la depositaria delle norme non scritte del savoire-vivre. Le regole venivano per lo più da Parigi che restò, almeno fino agli anni cinquanta, la capitale incontrastata della moda e soprattutto del saper vivere alla moda

La nota rivista francese “La Mode illustrée”, diffusa anche in Italia, sottolineava nel 1893 che il corredo di una signora di media estrazione doveva prevedere alcuni capi base ossia una robe de chambre da indossare nell’ambito privato della propria camera, una robe d’intérieur ovvero di un abito completato spesso da un tablier grazioso da portarsi all’interno delle mura domestiche per svolgere i propri compiti quotidiani, dalla corrispondenza all’organizzazione dei domestici, un abito per uscire nel corso della mattinata e di una robe de visites cioè di una veste adatta a recarsi e a ricevere visite nel corso del pomeriggio.

"Gli abiti rappresentano una sorta di codice, di linguaggio non scritto, che ci rimanda a realtà sociali e politiche, che ci parla di differenze e di uguaglianze, di appartenenze e di esclusioni. I capi femminili che Roberto Devalle ha raccolto nel corso del tempo, con sapienza e direi anche reverenza, perché di una veste il collezionista deve sempre e innanzitutto innamorarsene, ci prendono per mano e ci portano all’interno di un mondo che per essere capito appieno va decodificato. Gli abiti sono parole e continuano a raccontare, anche dopo molti anni, il contesto, all’interno del quale e per il quale, sono stati concepiti. La mostra, ospitata nelle splendide sale della Fondazione Accorsi-Ometto, che si trasformano in una scenografia perfetta, mette ‘in scena’ capi significativi, alcuni firmati da note maisons torinesi, come Sacerdote o De Gasperi e Rosa, e altri di sartorie sconosciute, ma tutti in grado di traghettarci in una realtà e in una ritualità lontana. Il guardaroba di una signora della buona società doveva comporsi di diversi capi adatti a rispondere alle esigenze sociali che ella era chiamata a rispettare nel corso della giornata. Il cambiarsi d’abito, come minimo quattro volte, non era un vezzo ma un dovere sociale. Le differenze tra l’abbigliamento della donna sposata, della ‘fanciulla’, della signora nubile erano comunque ‘segni’ visibili della condizione personale e sociale e il non rispettare le regole dell’apparire a seconda dell’età e del censo significava mettere in atto un lento ma inesorabile processo di esclusione."
MiraDiSangiacinto © 2019 mail to: silvia@silviamira.com | MINIMAL
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