"Gli abiti rappresentano una sorta di codice, di linguaggio non scritto,
che ci rimanda a realtà sociali e politiche, che ci parla di differenze
e di uguaglianze, di appartenenze e di esclusioni.
I capi femminili che Roberto Devalle ha raccolto nel corso del tempo,
con sapienza e direi anche reverenza, perché di una veste il collezionista
deve sempre e innanzitutto innamorarsene, ci prendono per mano e ci portano
all’interno di un mondo che per essere capito appieno va decodificato.
Gli abiti sono parole e continuano a raccontare, anche dopo molti anni, il contesto,
all’interno del quale e per il quale, sono stati concepiti.
La mostra, ospitata nelle splendide sale della Fondazione Accorsi-Ometto, che
si trasformano in una scenografia perfetta, mette ‘in scena’ capi significativi,
alcuni firmati da note maisons torinesi, come Sacerdote o De Gasperi e Rosa, e
altri di sartorie sconosciute, ma tutti in grado di traghettarci in una realtà e in
una ritualità lontana.
Il guardaroba di una signora della buona società doveva comporsi di diversi
capi adatti a rispondere alle esigenze sociali che ella era chiamata a rispettare
nel corso della giornata. Il cambiarsi d’abito, come minimo quattro volte, non
era un vezzo ma un dovere sociale.
Le differenze tra l’abbigliamento della donna sposata, della ‘fanciulla’, della
signora nubile erano comunque ‘segni’ visibili della condizione personale e
sociale e il non rispettare le regole dell’apparire a seconda dell’età e del censo
significava mettere in atto un lento ma inesorabile processo di esclusione."